Torna in rilievo proprio in questi giorni il tema del taglio delle Province stabilito nel decreto “Spendig review” che elimina oltre la metà degli enti provinciali italiani e ne stabilisce i criteri di riaccorpamento. Un’operazione che negli intenti potrebbe apparire giustificata: risparmio della spesa, efficientizzazione dell’amministrazione, razionalizzazione del territorio.
Ma le misure adottate percorrono tutt’altra via, poiché il vero motore di questa operazione è, da un lato, la riduzione della spesa pubblica (benché davvero minima!) ma, dall’altro, un taglio drastico della rappresentanza democratica anche sul piano locale.
L’eliminazione delle assemblee provinciali elettive va letta infatti nel più ampio quadro di riassetto istituzionale che, sull’onda della strategia della tensione in salsa “crisi dell’Euro”, ha portato alla decimazione dei consigli comunali (prima con l’accorpamento coatto dei piccoli comuni, poi con la riduzione diretta dei consigli comunali, infine con la creazione di super-sindaci metropolitani) e a progetti di legge che riguardano la riduzione del Parlamento o, addirittura, a forme istituzionali di tipo presidenzialistico.
Un accentramento dei poteri che a prima vista pare cozzare con altri provvedimenti di tipo federalista, ma che, in realtà, ne è il naturale complemento: ad uno Stato che non non garantisce più servizi e diritti fanno specchio Enti locali delegati a meri gabellieri ed esecutori legali delle direttive centrali.
Lo Stato minimo liberista non ha bisogno di enti intermedi “liberi” ma, anzi, come da direttive europee, li vincola in “patti di bilancio” che ne bloccano la spesa in virtù dei criteri finanziari centrali. In questa mostruosità ideologica si inserisce il drammatico calo di rappresentatività delle istituzioni e una pericolosissima deriva antidemocratica.
Pochi tecnici che prendono decisioni a Roma, concordate con Bruxelles o Washington, e altri pochi tecnici che le eseguono rapidamente sul territorio. Al popolo sovrano nemmeno la facoltà di scegliere i suoi amministratori.
Il taglio e riordino delle Province, inoltre, rappresenta l’ennesima beffa istituzionale all’italiana: di fronte ad un sistema delle autonomie locali in evidente stato di bisogno riformatore si risponde con misure economicistiche, razionalizzazioni arbitrarie, che non rispondono alle esigenze reali del territorio ma a vuoti criteri d’accademia.
Eppure il tessuto territoriale italiano, mai veramente pianificato (ma costellato di urbanizzazioni intensive e desertificazioni demografiche), avrebbe bisogno di un riassetto amministrativo che si basi su elementi solidi, che ne garantiscano la durata nel tempo. Innanzitutto vanno rispettate le varietà storiche, linguistiche, culturali, nonché le regioni geografiche e i confini naturali. Va interpretato il reticolato urbano, logistico, industriale, senza indugiare nell’individuazione di più piani amministrativi, proprio in senso inverso rispetto alle direttive europee e alle manovre del Governo Monti.
Non lo status quo e nemmeno un proliferare inutile di enti sovrapposti, ma un sistema di rappresentanza del territorio che individui livelli di amministrazione del territorio efficaci: un decentramento pianificato, in cui ogni ente abbia prerogative certe e solide e in cui le esigenze delle popolazioni locali e dello sviluppo nazionale siano integrate attraverso la partecipazione democratica.
Garantire il senso di comunità, che spesso in altre forme già si esprime nella società civile, non può che favorire una ripresa di coscienza collettiva che deve potersi esprimere attraverso le istituzioni locali e nazionali, e queste devono essere lo strumento di progresso della comunità, non un organismo evanescente cui delegare responsabilità, in senso positivo e negativo.
Oggi come oggi il riassetto delle amministrazioni locali non produrrà una sensibile semplificazione delle procedure, e nemmeno renderà più efficienti le iniziative dello Stato sul territorio: scuole, parchi, sanità, viabilità, servizi, ecc permangono in un limbo di afferenze, dominato sia da vuoti che da eccessi normativi. Si può ben dire che tutto è stato cambiato per non cambiare nulla e che a perderci è solo la rappresentanza e, dunque, la sovranità popolare.
Si capisce dunque che l’alternativa al modello neoliberista di asservimento della democrazia alla finanza passa anche attraverso la rivendicazione di una nuova rappresentanza, quella dei Consigli di quartiere e dei Comitati di fabbrica, per ricostruire il progetto di democrazia popolare necessaria base del progresso sociale.
Marco Nebuloni